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05 Dic

Cap.5-10: Pregammo, ognuno a modo suo, il Dio di tutti.

Al mio risveglio, all’alba del quarto giorno, raggiunsi il mio amico eremita e pregammo, ognuno a modo suo, il Dio di tutti.

Dopo la colazione, mi consegnò un foglio di carta piegato in quattro. Mentre lo aprivo, un po’ sorpreso da questo gesto inatteso, mi fissò con occhi sorridenti e con quella specie di taglio nel viso che gli accentuava il sorriso mi fece capire che non era il caso di aprirla. Ricambiai il saluto con un sorriso, una stretta di mano e, zaino sulle spalle, ripresi il mio cammino.

La discesa era relativamente semplice e senza intoppi, anzi, direi incantevole. Il sole mi accarezzava il viso con il suo calore contrastando l’aria gelida di Gennaio. La foresta delle querce e di seguito quella dei pini mediterranei mi aspettavano con il profumo della loro resina mescolato con quello del timo e della menta. Diversamente dalla salita, attraversai il ponte con sicurezza e, quanto meno, in piedi.

Pensai alle tappe vissute in questo luogo fantastico e alle quattro fasi che attraversiamo in ogni esperienza positiva.

La prima si limita alla sua scoperta, al guardare e a capire come gli altri ce la descrivono.

Se quello che scopriamo ci convince, passiamo alla seconda fase: assumere la responsabilità consapevole di viverla.

Nella terza si va oltre la mera consapevolezza, per raggiungere la competenza, anzi, oserei dire la perfezione, per vivere l’esperienza con tutte le sue gioie e le sue regole e morderla a pieni denti.

La quarta, invece, è la più impegnativa ed è l’animazione: dare una vita a questa esperienza, un’anima propria, divulgandola ed insegnandola. La capacità di iniziare gli altri, di informare e formare, non può essere realizzata senza il completo svolgimento della terza tappa. Introdurre bene un’esperienza, ed insisto sulla parola “bene”, permette agli altri di “scoprirla” e di procedere a loro volta nel ciclo delle quattro fasi.

Sicuramente non ero competente nel mantenere il silenzio, ma iniziai a pensare a come animare quest’esperienza, come raccontarla ai miei amici, senza rovinare il suo fascino con banali parole.

Prima di mezzogiorno arrivai davanti alla porta del Monastero. Ero sporco e puzzolente, ma felice.

Feci fatica a pronunciare la prima parola, ma una domanda mi ronzava nella testa. La cosa che feci dopo il saluto fu chiedere al padre superiore:

“Come si chiama l’eremita?”

“Hussein” mi rispose con un sorriso velato.

“Allora sapeva che è Musulmano?”

“Sì…”

Mi bastò come risposta. Non cercavo nessun “perché no?” o “guarda che siamo tutti uguali”…

“I tuoi amici ti aspettano nella sala per salutarti e per mangiare con te… vai ad incontrarli”

Quando li vidi sentii una gioia enorme, … Non c’era solo Rabih. C’erano tutti. Leyla, Mary, Dounia, Michel, Boghos, Sami, Fouad… e in più mi colpì la presenza di una nuova ragazza.

La curiosità degli amici non si fece attendere:

“Allora? Com’è stata la tua esperienza? Ce l’hai fatta a passare quattro giorni senza parlare, tu che non riesci a tacere un minuto intero?”

Al primo impatto avrei voluto rispondere che avevo “perso il vizio” della parola, ma ti posso assicurare che, dopo un buon piatto caldo ed un bicchiere di vino, recuperai velocemente la mia abitudine.

A tavola non smisi di fissare la nuova arrivata, fino a che, non potendo più resistere, chiesi al mio vicino di tavola:

“Come si chiama la nuova ragazza? Avete avuto il tempo di allargare la compagnia durante la mia lunga assenza?”

“Non lo so… l’ho conosciuta oggi… è arrivata con Rabih… so solo che si chiama Nidàl…”

“Hmmm! Interessante!”.


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